giovedì 17 settembre 2009

Dietro la notizia c'è sempre un'altra verità. Anche a Kabul?

Ho provato a chiedermi se il vile attentato kamikaze che, questa mattina a Kabul, ha provocato la morte di 6 militari italiani e il ferimento di altri 3 non abbia "risolto" qualche problema politico in casa nostra, spostando l'interesse dell'opinione pubblica dai temi di stringente attualità politica su quelli della tragedia afghana e del sacrificio di giovani vite, italiane e di altri Paesi, aderenti alla forza multinazionale voluta dall'ONU.
Volendo essere cinici, come solo la politica sa esserlo, riflettiamo su chi sono stati coloro che da troppi giorni bruciavano sulla graticola ed erano bersaglio dell'opinione pubblica nazionale ed internazionale per i propri comportamenti pubblici e privati.
In poche parole Berlusconi&Co i quali, assolutamente estranei a quanto accaduto a Kabul, non hanno però potuto che trarne "beneficio" da questo evento che ha provocato lo slittamento della protesta nazionale contro la libertà di stampa, ha affievolito la discussione sul pronunciamento del lodo-Alfano da parte dei giudici della Consulta, ha fatto passare in terzo piano le dichiarazioni del Tarantini colluso con la mafia per le sue dubbie frequentazioni a Palazzo Grazioli col Capo del Governo insieme a puttane ben pagate.
Insomma, la tragedia bellica ha invertito l'attenzione e la sensibilità pubblica su temi di interesse generale col risultato di affievolire, se non addirittura spegnere, la fiammella che si era accesa sulla grave crisi, politica e istituzionale, che stiamo attraversando in Italia dove sono oggettivamente a rischio le libertà democratiche, a cominciare da quella della libera espressione ed opinione.
Dietro ogni notizia, quindi dietro ogni fatto o accadimento, a qualsiasi livello, c'è sempre, o quasi, un'altra verità, quella non dichiarata e che comunque resta.
Qualcuno potrebbe considerare azzardato, folle il nostro pensiero: la storia però ci ha insegnato che gli interessi perseguiti dal potere, da qualunque potere, prevalgono su ogni altro interesse, ivi incluso il rispetto della vita umana.
Del resto apparati segreti, poteri deviati continuano a operare in barba a tutto e a soddisfare le aspettative del padrone di turno...
Piangiamo questi uomini perchè la loro morte ci riporta alla dura realtà di ogni giorno, senza ipocrisie e sottraendoci alla retorica di circostanza, ci sentiamo di affermare in scienza e coscienza che il loro è stato purtroppo un sacrificio inutile che presto sarà dimenticato da una società priva di valori di riferimento e senza più credo.


Pubblichiamo l'articolo apparso su "Il Riformista" del 21 settembre scorso a firma di Giampaolo Pansa.

L’unica conseguenza positiva del massacro di Kabul è stato il rinvio della grande adunata in difesa della libertà di stampa. Mi rendo conto di affiancare due fatti tragicamente diversi. Da una parte, la morte di sei nostri soldati che in Afghanistan rischiavano la vita anche per la nostra libertà. Dall’altra una manifestazione politica, fondata su presupposti sbagliati. Il vertice della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, ha garantito che l’incontro di Roma si terrà fra quindici giorni. Ecco un lasso di tempo utile a riflettere su alcune questioni.

La prima è una verità che non si può ignorare. La sinistra ha attaccato di continuo i giornali indipendenti. In un articolo pubblicato su Libero, ho provato come si sia condotto Massimo D’Alema a partire da Tangentopoli. La sua radicata avversione per la libertà di stampa è stata identica a quella che oggi mostra Silvio Berlusconi.
D’Alema ha anticipato tutte le mosse del Cavaliere. A cominciare dalla richieste spropositate di danni. Presentate da Max all’Espresso e al Corriere della sera, così come adesso ha fatto il premier verso Repubblica e l’Unità.
Contro D’Alema la sinistra ha protestato? Ha portato in piazza i militanti? No, mai. Perché contro il Caimano sì e contro Baffino d’Acciaio no? Ai posteri la non ardua sentenza.
La seconda questione riguarda il vero regista della manifestazione. Il promotore ufficiale è il sindacato unico dei giornalisti. Ma anche i bambini sanno che tutto avverrà perché lo ha deciso Repubblica. Se il quotidiano diretto da Ezio Mauro fosse stato contrario all’iniziativa, la Fnsi e i superstiti partiti di centro-sinistra non si sarebbero mossi. Ecco un dato sicuro sul quale riflettere, ripensando al passato. Verso la fine degli anni Ottanta, Eugenio Scalfari, allora direttore di Repubblica, attuò una rivoluzione copernicana nel rapporto fra giornali e partiti. Lui riteneva di essere più forte di qualunque leader politico. Il sole era Repubblica, mentre i partiti erano soltanto pianeti senza importanza che le ruotavano intorno. Ricordo che Eugenio ci diceva: «Quando i leader politici di oggi non ci saranno più, il nostro giornale sarà ancora qui, sempre più influente».
La rivoluzione copernicana di Scalfari riuscì soltanto a metà. Chi l’ha condotta a termine è stato il successore, Mauro. Molto diverso da Scalfari, ben più radicale di lui, in sella da diciotto anni, direttore di grande capacità professionale, Mauro ha fatto di Repubblica il più forte partito della sinistra italiana.
Se il Partito democratico non morirà, il merito sarà soltanto suo. Anche in questo caso vale la prova contraria. Supponiamo che Repubblica si opponga al Pd, ai suoi leader, alla sua ossessionata battaglia contro Berlusconi. A sinistra troveremmo il deserto. Invece a sinistra domina Mauro con il giornale che dirige.
È in largo Fochetti che si decide l’agenda politica della sinistra italiana. E adesso anche l’agenda della Fnsi. Senza il sostegno costante di Repubblica, il capo del sindacato, Franco Siddi, sarebbe un giornalista quasi sconosciuto, escluso dalla tivù e dalle interviste.
In una democrazia parlamentare è normale questa condizione? Penso di no. Ma la responsabilità di questa anomalia non è di Mauro. È dei partiti, e non soltanto di quelli di sinistra. Peggio per loro, per i capoccia della casta politica. Hanno alle spalle il consenso di milioni di elettori, ma se ne stanno dimenticando.
Il terzo fatto su quale riflettere è la strategia messa in atto dalle sinistre per combattere Berlusconi. Proprio perché sempre più deboli e sottomessi al super-comando di Repubblica, molti leader del centro-sinistra alzano di continuo il livello delle accuse al Cavaliere. Con il risultato di accentuare un delirio antifascista contro un avversario che, pur sbagliando molte mosse, non può essere ritenuto un nuovo Mussolini.
È proprio questo l’errore tragico che stanno facendo. Franceschini dichiara che «Berlusconi ricorda da vicino il fascismo con i suoi attacchi alla libertà di stampa». Persino Bruno Tabacci, uno dei capi centristi, si è spinto a dire: «Contro Berlusconi ci vuole un Comitato di liberazione nazionale», senza rendersi conto di evocare un fantasma da guerra civile.
Su Antonio Di Pietro non è necessario aggiungere più nulla. Due giorni fa ha sostenuto che il premier è il nuovo Saddam Hussein. E a questo punto non gli resta che uccidere il Caimano. O chiedere a Obama di inviare in Italia un robusto contingente militare. Con l’obiettivo di catturarlo e impiccarlo.
Non occorre essere dei maghi per avvertire i rischi di un clima tanto arroventato. Nella storia esiste una catena inesorabile di eventi. Non basta più lo scontro parlamentare? Allora si va in piazza. E se anche la piazza non basta, non resta che prendere il fucile. Ma imbracciare le armi è sempre un pericolo mortale. Non si può volere il ritiro da Kabul, come pretende Di Pietro, e poi considerare l’Italia un altro Iraq o un nuovo Afghanistan. All’inizio degli anni Settanta, ho visto nascere in casa nostra il terrorismo di sinistra e di destra. Nessuno lo riteneva possibile. Sono stato uno dei pochi cronisti a scorgere per tempo quell’abisso. I giornali di sinistra mi attaccavano, scrivendo che ero un visionario. Poi tutto è accaduto in un attimo. Per uscirne, ci sono voluti quasi vent’anni e centinaia di assassinati. Vogliamo ricominciare? In nome di una libertà di stampa che non è affatto scomparsa, che c’è, che non è mai stata così forte come oggi?




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